venerdì 20 gennaio 2012

Un viaggiatore poco prima di coricarsi

La morte leggera ti sfiora il cuore, vuole abbracciare il tuo vuoto, vuole riempirlo con l’unica cosa in grado di farlo, il silenzio, il nero, l’oblio, per non sentire più il peso di questo caos informe e spietato. Trascina dentro l’anima il nulla, lo crea, lo distrugge, rompe in un silenzioso pianto, nessuno può ascoltarlo, nessuno deve comprenderlo. Misera e triste vittima del proprio amore, corre, lontano, fugge dal nulla in cui si condanna alla sofferenza. Vuota risuona ogni esortazione alla felice leggerezza, inconcludente insoddisfazione. La forza di mille titani dentro, ma non può esplodere solo soffocare e divenire la debole luce che s’oscura all’ombra della resistenza, non concedere un solo centimetro, ma piuttosto prenderne e poi scegliere, catalogare, eliminare, distinguere ore e persone, come fossero libri da riporre in uno scaffale. La teca della vita va arricchendosi di misere certezze, accortezze necessarie per lasciare libera l’anima che pene e tregue non vuole conoscere, perduta sempre tra le rose di germinanti amori interrotti da eclissi spirituali. Morti felici danzano nel cuore del mostro che stringe al petto rami di spine e fiori bianchi, rosse le lacrime bagnano speranze deturpate dal sole che acceca ed impietoso vuole attenzione. Frenesia di attimi iconoclasti, rabbia pulsante nelle vene degl’ occhi di chi muto assiste al proprio declino e urla silenziosamente alle cose, alle rocce, alla vita il suo diniego e rifiuto di accettare tutto ciò che è imperfetto. Ancora urla e grida, ancora pianti e silenzi, tutto affogato e represso dentro un misero corpo fatto di verde e di terra, la cenere sparsa su di un pavimento abbandonato al proprio invecchiare, nessun minuto che passi senza scandire la propria dipartita. Bianco buio, nero lucido, i colori fuggono nella nebbia diradando ogni luce e lasciando pietra vestita di chiara solidità, greve ruvidezza, impatti improbabili ma inevitabili con il suolo. Il marmo abbraccia ma non sorregge, scorre fluido il freddo che lo attraversa, si ferma solo per lasciar posto al contatto che non sopporta d’esser concepito. Un delirio di una povera mente avvelenata dalla sua stessa essenza, le orbite cave nutritise dei propri bulbi hanno portato con sé anche l’anima del naufrago perenne, in continua ricerca di ciò che non può essere trovato, egocentrica vittima della propria crudeltà, sadiche speranze accoltellate in vicoli interiori, spessori di niente e voluttà di morte. Sigarette metafore di esistenze prive di fuoco, si consumano e consumano attimi ributtati come fumo dalle ciminiere, i fantasmi consapevoli cercano di inspirarne il più possibile, partecipi di masochisti omicidi. Nero, colore della rosa spirituale che alta nel cielo staglia il proprio riverbero tra arcobaleni fasulli e pentoloni pieni di desideri troppo audaci, carnefici di ogni speranza sepolta nel porto di ogni uomo. Il dolore, come stigma della propria pena, porta con sé i segni della brillantezza di un essere che si divora  nell’eterno ripetersi di cicli interminabili. Un serpente si annida nel petto aspettando il momento e la vittima congeniali al proprio morso. Il lupo ulula alla luna, graffiando l’oceano in cui si specchia ed inorridisce l’astro catturando il rimorso e il rancore nascosti nel lamento del povero cristo. Maria madre della pietà, concedine e togline a chi meno ne merita, regalane ed impietosa dispensane a chi di luce deve caricare le proprie aspirazioni in rivolta contro le proprie paure. Abbi pietà farfalla dagli occhi scuri come l’ebano, per ogni carezza troppo pretenziosa che ti viene fatta, abbi pietà di tenui amori, tiepidi e laconici segreti di amanti puri, purgane la malizia ed accoglili nel tuo tiepido ventre, benedicili con la tua grazia di indulgente signora, amali fino all’ultimo ardere di ogni tempo e nei secoli stringili nella tua pioggia dispensatrice di serene utopie. Ancora il vuoto non abbandona la propria tana e lentamente distrugge ed erode tutto, lo stringe soffocandolo, ama corrompendo ogni serena ingenuità, odia sempre più odiandosi, rinnovando il proprio spirito di distruzione che germina  tra rovi e rovine di lacrime troppo a lungo nascoste ad occhi di lupi e libellule. Far fronte alla mancanza di metafore oniriche purché di sonno se ne abbia da perdere. Richieste di libere essenze, assenze quotidiane nella steppa del petto che va percorrendo ogni giorno lo stesso tragitto, il fiume che scorre ed invita ad annullare ogni desiderio ed ogni speranza si augura di annegare per porre fine ai lamenti di uno stupido cieco che si rifiuta di guardare al di là del proprio buio. Una bambina gioca lanciando scintille nell’aria, ingenua, pura, lascia che la vita le si presenti abbigliata con misteri ed inganni a cui dovrà imparare a far fronte. Il bambino le augura di saper trovare qualcuno che la possa stringere quando la notte sembra più buia, quando il sole non scalderà. Crescono intanto rampicanti sui loro corpi e sempre più li stringono, sempre più affondandoli nel terreno, dove troveranno eterni compagni al loro sonno privo di brezza. Le nubi cariche di vento e brandelli di cielo, s’addensano tra fili tessuti in crisalidi di vetro, piombo e gerani. Dove sei ora che ho perso, dove sei ora che ho vinto il mio premio all’eterno azzardo del caso, dove sei ora che sto fuggendo? Attraverso campi sconfinati, piaghe di malinconie, pieghe di attimi felici.
I piedi calpestano, le mani recidono, intanto il grano brucia spandendo nell’aria odore di crisantemi legati tra loro da lacci color dello zaffiro, gocce di belladonna e sospiri di viole donano alla composizione l’eterno mistero dello scorrere. Insoddisfatti pensieri, vittime e boia dell’uno stesso, madre e padre, colmi e grondanti di noiosi tedi, purtroppo inevitabili, da sé medesimo prodotti, da sé medesimo inestinguibili. Folli riflessi di folle bieche e straziate, agghindano specchi messi ad incenerire ogni sicurezza, ogni parola che sa di dover soccombere alla luce della verità.  Importanza che non ha nome né cuore, giace distesa sopra un letto di piume, dimentica di tutto ciò che non la confà, ride, serena, dimentica di sé e dei propri timori. Liquori, distillati dalle noiose lamentele, vengono versati per far cessare l’eco di mondi ormai sepolti sotto coltri di indifferenza, coperti con veli trasparenti. Non c’è aiuto da chiedere ne promesse da ottenere, deve solo spegnersi il furore di ore sprecate nell’angosciante attesa di una reazione, quando alla morte riesci a strappare un bacio avvolto da un tenue candore ed il vuoto impallidisce, rachitico, sfondato da certezze invisibili. E l’amore scorre nuovo, libero, non curante del fetido sussurrare d’un marcio e putrido livore.

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